L’arrivo del re Umberto I e della consorte regina Margherita a Messina nel 1881 fa sperare in un ritorno di quei privilegi commerciali in gran parte perduti e che ogni sovrano in passato aveva concesso alla città dello Stretto. I liberali contestano i vecchi privilegi, ma si muovono per acquisirne di nuovi tra edilizia urbana e dazi al consumo.
1. «Messina è città assopita. I cittadini di ogni classe, di ogni condizione, di ogni ceto, tutti dormono, e se non profondamente, sonnecchiano, e si cullano spensierati nei piaceri della vita, nelle delizie della città ridente, nelle dolcezze del clima, in mezzo a tanti sorrisi di cielo e di terra, pascendosi delle rimembranze della passata grandezza e degli antichi privilegi, – fueros – oggi offerti dai messinesi in olocausto sull’altare della patria grande libera ed una».
È l’introduzione dell’opuscolo del già citato ing. Martinez, Le cinque piaghe della città di Messina. Nell’aria c’è un clima di malcontento per l’imminente perdita dei privilegi del portofranco. I messinesi sono come storditi, vivono nel ricordo della passata grandezza e degli antichi privilegi goduti ai tempi del dominio spagnolo, oggi perduti in cambio di una nazione unita.
Il termine fueros rivela le origini geografiche del nostro libero professionista, tipica figura d’intellettuale progressista, e riporta alla memoria le leggi di Navarra del 25 agosto 1839 e del 16 agosto 1841, grazie alle quali il nuovo governo liberale d’Isabella II stringeva un patto di non belligeranza con la storica regione iberica. Il patto, riconoscendo alla Navarra privilegi nell’ambito amministrativo ed economico-fiscale, tradiva lo stesso spirito liberale del nuovo regno. I fueros erano il prodotto della negoziazione tra corporazioni e re, una concessione non gentile ma vincolata, indice della forza dei ceti nobiliari locali.
Messina era stata oggetto di fueros, non ultimo il portofranco, prima che cadesse sotto i colpi della scure dello Stato liberale. Senza fueros, la città si sentiva priva del riconoscimento della propria forza politica. Ma sarebbe bastato abolire i privilegi per togliere potere ai notabili di Messina? Certamente no.
Si poteva sempre venire a patti con il nuovo sovrano, negoziare il suo potere.
Finiti i sogni repubblicani di Mazzini, infatti, in un’Italia basata su una monarchia costituzionale pura, Messina riuscì a garantirsi dei nuovi privilegi con la gestione del piano regolatore dell’edilizia urbana e del dazio sul consumo.
L’avventura unitaria italiana, dunque, fu caratterizzata dalle particolarità municipali, dal rinnovamento d’antichi patti fra potere centrale e poteri locali, da quelle storture del sistema che i repubblicani erano soliti chiamare «piaghe»: nel 1848, il sacerdote Antonio Rosmini Serbati pubblicava Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, opera messa all’indice nel 1849 per motivi politici, al 1870 risalivano Le cinque piaghe del Regno d’Italia di Emilio Serra Croppello, al 1879 Le cinque piaghe della città di Messina di Martinez, infine La vera piaga della città di Messina scritto da Riccardo Hopkins nel 1882.
Il vizio o l’abitudine sconcia di un uomo dell’Ottocento si trasforma in piaga quando diventa fenomeno sociale. Perchè il borghese intellettuale ha il culto dell’immagine pubblica, dell’uomo probo e virtuoso, dedito agli affari e alla famiglia, votato all’interesse privato e al benessere dei propri dipendenti. Si sacrifica, sopporta e si esalta, solleva polemiche contro chi trasgredisce le sue regole e chi attenta all’ordine dei suoi affari.
Luogo designato al riprodursi delle piaghe è la città, vero coacervo delle diversità: dal centro, sede delle attività amministrative, ai rioni malfamati dove le epidemie si diffondono con grande rapidità. Da qui, qualche esponente politico prende la manovalanza criminale, da qui le ditte edili, portuali, agricole, manifatturiere traggono parte della loro forza lavoro. Lo spostamento, dalle campagne alla città, di braccianti in cerca di lavoro non sempre è proficuo e le nuove masse vanno ad infoltire il mondo dei nullatenenti e degli sfaccendati.
A Messina, questo movimento fu più massiccio a partire dagli anni ’70, quando si registrarono aumenti delle imposte dirette e cali nelle importazioni di carni e derrate, dovuti al tifo bovino, alle guerre civili con la Spagna, all’ultima guerra franco-germanica, alla concorrenza estera. La giunta comunale mostrava il suo volto reazionario e attribuiva buona parte delle colpe ai rivenditori, agli affittatori e al «malvezzo delle classi inferiori di elevarsi al paro delle altre, tanto da volere fare sparire la diversità dei ceti».
Il benessere comune aveva portato alla divisione delle risorse disponibili e, nella speranza di continuare a riservarsene il controllo, i ricchi assessori proposero una pianificazione della distribuzione dei grani e delle carni. L’iniziativa fu respinta da un Consiglio liberista.
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(1) Tratto dal libro di Dario De Pasquale “LE MANI SU MESSINA prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Giochi di potere, politica, malaffare, potentati locali, rapporti con il governo italiano e resoconto a 100 anni di distanza.”, [2006].
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